Tutti gli articoli di Andrea Dessardo

Qualche buona notizia dai test PISA

L’Italia, sebbene rimanga ancora al di sotto della media OCSE, è uno dei Paesi che ha registrato i più notevoli progressi nell’apprendimento della matematica e delle scienze. Questo è quel che dicono i risultati dei test PISA (Programme for International Student Assesment) condotti nel 2012 (le rilevazioni vengono fatte ogni tre anni a partire dal 2000) su un ampio campione di quindicenni di quarantaquattro Paesi, prendendo in esame le competenze in matematica, scienze, lettura e problem solving.
Il risultato medio in matematica degli studenti italiani, paragonabile a quello di Paesi come Russia, Stati Uniti, Norvegia, Spagna e Portogallo, è in crescita di ben venti punti (numeri assoluti) rispetto alla rilevazione del 2003, con un’impennata tra 2006 e 2009. Le maggiori difficoltà sono state rilevate nelle prove in cui si chiedevano formulazioni matematiche, mentre i risultati si sono mostrati in linea con quelli internazionali laddove venivano richieste interpretazioni, applicazioni e valutazioni. Purtroppo sono vistose le differenze territoriali: i ragazzi del Triveneto hanno ottenuto risultati superiori, e non di poco, non solo alla media nazionale, ma anche a quella OCSE. Anche la discrepanza tra maschi e femmine desta qualche preoccupazione: i maschi hanno fatto 18 punti in più delle femmine, rispetto agli 11 registrati negli altri Paesi. Il dato si ribalta per quanto riguarda invece la lettura, confermando un antico stereotipo: le ragazze hanno totalizzato 39 punti in più, ma il dato è in linea con i 38 della media OCSE. Nella lettura i ragazzi lombardi, veneti e trentini superano però di molto il dato internazionale.
Dopo queste considerazioni di carattere tecnico, la relazione presenta qualche nota che si potrebbe definire politica: la spesa pubblica italiana per la scuola è diminuita dell’8% tra il 2001 e il 2010, e nel destinare all’istruzione meno danaro siamo in compagnia soltanto di Islanda e Messico. Qualche ragionamento andrebbe però fatto anche su come questi soldi vengono investiti: i nostri 50.000 dollari a studente sono pari a quelli di Singapore, ma in matematica i nostri ragazzi hanno preso 485 punti, nell’isola 573.
A proposito di spese, l’OCSE nota che le nostre scuole godono di troppo poca autonomia, non avendo modo di incidere, per esempio, sul rendimento e la condotta dei propri docenti. È uno spunto per chi crede nella libertà dell’educazione, specie alla luce del grande divario che c’è non solo da regione a regione, ma anche da scuola a scuola, con la tendenza perciò a creare ghetti. Solo il 69% degli studenti è soddisfatto della propria scuola: negli altri Paesi è il 78%. Alti sono i tassi d’assenteismo e i ritardi alle lezioni, con maggiore incidenza fra gli studenti più fragili dal punto di vista socio-economico, il 18,4% della popolazione scolastica; il 17% dei nostri quindicenni ha ripetuto almeno un anno, rispetto al 12% dell’estero.
C’è poi un dato che potrebbe destare qualche curiosità. Siamo sopra la media OCSE per l’iscrizione alle scuole materne, dal momento che solo il 4% dei nostri studenti non le ha frequentate, rispetto al dato internazionale del 7%: parrà strano, ma chi ha fatto l’asilo ha ottenuto 25 punti in più nelle prove di matematica sostenute a 15 anni rispetto a chi all’asilo non era andato, segno che la predisposizione a imparare ha radici profonde.

Ulteriori informazioni si possono reperire qui

Realizzare davvero i sogni dell’infanzia

Randy Pausch aveva da poco scoperto d’avere il fegato invaso da venti metastasi e che gli restavano solo pochi mesi da vivere. Anzi, come disse il medico: che «aveva ancora dai tre ai sei mesi di ottima salute». Questo modo di comunicargli la data presunta della morte in maniera positiva è uno degli insegnamenti, tra i molti, che Pausch ha deciso di lasciare ai suoi figli, agli studenti e, ormai, a chiunque voglia leggere L’ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore, il suo libro-testamento. Così come aveva imparato alla Disney: quando si chiede a che ora chiude Disneyland, ci si sente rispondere che «il parco è aperto fino alle 20».

Randy Pausch colse così l’occasione che gli diede la sua università, la Carnegie Mellon di Pittsburgh, Pennsylvania, che già da tempo organizzava «ultime lezioni» nelle quali i docenti erano chiamati a condensare i punti più importanti della loro scienza. Decise di non rinunciare, anzi, di trasformare quell’occasione da formale manifestazione accademica in lezione di vita. In fondo, è quanto sarebbe chiesto sempre ad ogni insegnante. «Probabilmente molti si aspettavano un discorso sulla morte. Il mio, invece, doveva riguardare la vita».

«Ho riflettuto a lungo su come definirmi: insegnante, informatico, marito, padre, figlio, fratello, mentore per i miei studenti», pensava cercando lo spunto per la sua ultima lezione, il motivo per cui essere ricordato: «Se avessi raccontato la mia storia trasmettendo la passione con cui ho vissuto, allora la mia lezione avrebbe potuto aiutare anche gli altri a trovare la strada per realizzare i propri sogni», concluse. E scrisse agli organizzatori per comunicare il tema della lezione: Realizzare davvero i sogni dell’infanzia.

Mi colpisce come uno stimato professore abbia saputo parlare al cuore di milioni di persone raccontando se stesso in tutta sincerità, anche di aspetti assai intimi della sua esperienza, facendo uso della sua professionalità: tenendo una lectio magistralis all’università. Vita e professione non si sono scisse; la lezione diviene metafora di una vita, per certi versi approdo, per altri mezzo attraverso il quale comunicare ben altro: sogni, aspirazioni, relazioni, successi e fallimenti. Anche l’angoscia della fine imminente.
È per questo, più che per i contenuti delle sue lezioni, che ricordiamo con affetto un professore.

R. Pausch, L’ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore, con J. Zaslow, Rizzoli, Milano 2008

La lezione su YouTube

Credere nella scuola

29 chilometri a piedi ogni giorno, ormai già 1600 negli ultimi anni. E per andare dove? A scuola. E poi al lavoro.
La storia, sebbene ambientata in un mondo – non solo e non tanto in senso geografico – agli antipodi del nostro, è ormai nota a tutti, da quando per primo il Daily Mail l’ha proposta all’opinione pubblica dell’Occidente. In poche ore tutto il mondo già ne parlava commosso, o almeno colpito, perché storie di questo tipo era da tanto che non se ne sentivano. Sbagliando, per altro perché, come ricordava il Corriere della sera mercoledì 12 marzo, casi analoghi purtroppo non sono infrequenti e tanti sono ancora i bambini che, nel mondo, il diritto all’istruzione se lo devono davvero sudare, attraversando quotidianamente foreste, valli e passi d’alta montagna, fiumi e canyon per poter seguire le lezioni. È stato già definito, il povero signor Yu Xukang, il «padre dell’anno». Probabilmente lui ancora non lo sa, ma più che dell’anno, gli importa essere padre nella vita.
Che cosa lo spinge infatti a sacrificarsi in questa maniera se non l’amore per il figlio Xiao Qiang e la speranza, forse l’illusione, che la scuola possa cambiarne la sorte, che a molti sembrerebbe già segnata?
Al di là dell’amore paterno, che ci è in fondo comprensibile, è la fede nel potere dell’istruzione a colpire la nostra immaginazione: abitassimo anche noi nella prefettura di Yibin, nella provincia cinese del Sichuan, saremmo disposti a scommettere sul fatto che la scuola può realmente offrire un’opportunità a un bambino handicappato (a dodici anni Xiao Qiang non raggiunge il metro d’altezza e non è in grado di camminare)? Avremmo tanta fede da sperare in un posto all’università, se in tanti anni le autorità non sono state in grado neppure di mettergli a disposizione un servizio navetta? Quel padre infatti pensa già all’università per il figlio! Lì, tra i monti, la terra e le pietre, dove non passa nemmeno un’auto cui chiedere un passaggio.
La nostra sensibilità ci farebbe dire che, se uno nasce povero e disabile sulle colline del Sichuan con la scuola più vicina a 4,5 miglia di sterrato, per lui un futuro non c’è. Che tutta la retorica sulla scuola come mezzo di promozione sociale, di eguaglianza, altro non è, appunto, che vuota retorica. Lo dimostra, per esempio, l’alto tasso di dispersione scolastica che caratterizza il nostro Paese: secondo l’Istat (dati relativi all’anno 2011-12), da noi il 17,6% dei giovani, con punte del 25% nel Mezzogiorno, si limita alla licenza media, e appena il 30% dei diplomati si iscrive all’università, sebbene le statistiche dimostrino che, bene o male, i laureati trovano lavoro più facilmente degli altri.
Nell’accompagnare a scuola i nostri figli o nel consigliarli sugli studi da intraprendere, prendiamoci qualche istante per pensare al signor Yu e alle sue giornate: casa, scuola, lavoro, scuola, casa, in un folle pellegrinare attraverso la vita. Se sembra inutile il suo paziente girovagare sui sentieri polverosi della prefettura di Yibin, pensiamo che il suo non è semplicemente un andare su e giù, ma l’andare avanti dell’umanità.

Amore, buon senso, saggezza. La scuola secondo Monsieur Lazhar

I banchi disposti su file parallele, un dettato da Balzac in un francese raffinato e forse anacronistico, uno scappellotto al momento giusto, il coraggio politicamente scorretto di affrontare in classe, con ragazzini dodicenni, temi duri come la morte e la sofferenza, senza temere che essi possano non essere in grado di comprendere e dominare le proprie emozioni; e il rapporto franco e leale, formale ma non indifferente, con genitori e colleghi, e la passione per la cultura e la civiltà. Anche di questo parla (ma un altro importante nucleo riguarda l’integrazione degli immigrati e il multiculturalismo) – con uno stile narrativo mai retorico né forzato – il film canadese di Philippe Falardeau Monsieur Lazhar, uscito in Italia nel 2012.
Bachir Lazhar si presenta un giorno in una scuola di Montréal per sostituire la titolare trovata una mattina, da uno dei suoi alunni, impiccata nell’aula scolastica. Afferma di aver insegnato per diciannove anni in una scuola di Algeri e di essere residente in Canada già da qualche tempo. I suoi metodi d’insegnamento vengono giudicati antiquati, eccessivamente rigidi, pedagogicamente inadeguati, addirittura pericolosi da colleghi, alunni e genitori. Ma in breve, aggiustati con qualche innovazione didattica che Lazhar si fa spiegare dalla collega Claire, mostrano la loro piena efficacia: il rendimento dei ragazzi non fa che migliorare e anche il trauma del suicidio dell’insegnante di ruolo viene superato, pur trasgredendo alle rigide prescrizioni imposte dagli psicologi, che preferirebbero che in classe non se ne parlasse.
La verità è che Bachir Lazhar non è un insegnante. In Algeria gestiva un ristorante e si trova in Canada in attesa del riconoscimento del suo status di rifugiato, fuggito dal suo paese natale durante la guerra civile. I due figli e la moglie, lei sì insegnante e autrice di un libro che in patria aveva suscitato lo sdegno dei fondamentalisti religiosi, sono morti nel rogo della loro casa. L’impostura di Lazhar mostra impietosamente che, con vero amore per i ragazzi e per le materie insegnate, con un po’ di buon senso e di saggezza, paradossalmente chiunque è in grado di insegnare. Certo amore, buon senso e saggezza sono doti alla portata di tutti, ma che non tutti dimostrano di avere; e che anzi, sembra dire il regista, sono doti oggi guardate con sospetto, ingabbiate dietro direttive ministeriali, circolari, la dittatura dei tecnici.
Il film conduce una critica sottile a un certo modo di “sterilizzare” i rapporti umani e di ridurre la pratica educativa a mera professione, anzi a fredda tecnica, a procedura. Sono vietati i contatti fisici di qualsiasi tipo: per quanto sia doveroso che si proibiscano le punizioni corporali, il timore di incomprensioni e denunce porta a inibire persino l’abbraccio d’incoraggiamento, il bacio affettuoso, addirittura lo spalmare la crema solare durante la gita, preferendo che i bambini si ustionino. Invece Lazhar, con la sua ignoranza della pedagogia scientifica, riporta al centro dell’esperienza educativa la vita vera, che è fatta anche di dolore: quello dei bambini che hanno perso l’insegnante e quello suo, che ha perso la famiglia e lotta per inserirsi in una nuova cultura, vincendo i pregiudizi che inevitabilmente lo circondano. Alla fine, scoperto l’inganno, Lazhar è allontanato dalla scuola, anche se nel frattempo è stato riconosciuto come rifugiato. Come scrive il card. Angelo Scola, «la guarigione inizia in un rapporto in cui l’adulto per primo abbia fatto i conti con la ferita che pretende di curare».
Il film significativamente si chiude con un’azione severamente vietata: l’abbraccio sincero tra l’insegnante e un’alunna.