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Studiare per il bene degli altri

Ancora adesso a distanza di 6 mesi, se chiudo gli occhi e ripenso a quel 10 maggio, a quella Piazza San Pietro stracolma di persone, di studenti, docenti, genitori, operatori scolastici, provenienti da ogni angolo d’Italia, accomunati da quell’unico obiettivo di festeggiare la scuola, il cuore si riempie di gioia e torna il sorriso. Sì, torna il sorriso sulle labbra perché negli sguardi, nei gesti, nell’entusiasmo di quell’infinita distesa di persone si rifletteva quel desiderio di vivere la scuola, di essere veri protagonisti in quella grande comunità in cui ti vengono offerte le opportunità della cultura, della formazione, dell’amicizia, della solidarietà. Si respirava gioia, la pura gioia.

La scuola è una città, un mondo con i suoi pregi e i suoi difetti, con le sue regole e le sue opportunità, con le sue ricchezze. La scuola non ha semplicemente il compito di “trasferire” il sapere, no! Essa apre la mente e il cuore alla realtà e ci insegna a comprenderla meglio; trasmette quella vera educazione che «ci fa amare la vita, ci apre alla pienezza della vita», come ci ricordò quel giorno Papa Francesco. La scuola è sinonimo di apertura alla realtà e proprio perché tale deve promuovere un sapere inteso come perfezionamento dell’intelligenza e della persona. Quest’educazione dell’intelletto rende l’individuo responsabile nei confronti della società; di conseguenza il fine pratico della scuola diviene quello di far crescere buoni membri che andranno a formare, insieme, una società: Uomini che possiedono quella tranquillità di una mente che vive in se stessa, mentre vive nel mondo, e che ha in se stessa le risorse per la propria felicità e libertà. Oggi forse diamo troppo per scontato quello che la scuola è per noi studenti, e per tutti coloro che all’interno di essa operano. E invece non possiamo perder altro tempo! È arrivato il momento di spalancare qualche finestra dopo l’inverno e di sentire l’odore di una nuova primavera, in cui i protagonisti sappiamo essere proprio noi studenti, perché la scuola siamo (anche) noi!

A noi giovani è proibito non interessarsi di quella che è la nostra primaria fonte di libertà, perché il prezzo del disinteresse è un appalto di potere ad altri, da cui si finisce per dipendere: si diventa aridi. Il nostro compito più arduo è quello di “essere insieme” responsabili di una scuola che trova nella passione (di chi la vive) il vero fondamento. Non dobbiamo far altro che farci travolgere dalla scuola che ha la missione di educarci al vero, al buono e al bello, perché solo così saremo in grado di riscoprire quei valori che ci permettono di essere vivi, di vivere. L’amore per la scuola deve divenire la lancetta della nostra bussola; non di certo perché costretti da qualcuno ma proprio perché nel nostro cuore ne sentiamo la necessità! Le parole che papa Francesco ci ha donato con semplicità e dolcezza, in quella giornata piena di sole, non possono passare inosservate. Ogni volta, queste parole mi danno forza, coraggio, entusiasmo, speranza! Scriveva San Bernardo, monaco e grande intellettuale medievale: «Vi sono quelli che vogliono sapere tanto per sapere, e ciò è curiosità; altri perché si sappia che loro sanno, e questo è vanità; altri che studiano per vendere il proprio sapere per denaro o per onori, ed è cosa turpe. Chi vuol sapere per propria edificazione compie un’azione prudente; chi infine studia per il bene degli altri compie opera di carità». Ecco sì, il Santo Padre con quelle parole ci ricorda che ho una missione: essere manifesto di quello che la scuola è, nel suo più profondo significato: studiare per il bene degli altri.

Costanza Tellini
Liceo Scientifico Russell-Newton, Scandicci (Firenze)

Realizzare davvero i sogni dell’infanzia

Randy Pausch aveva da poco scoperto d’avere il fegato invaso da venti metastasi e che gli restavano solo pochi mesi da vivere. Anzi, come disse il medico: che «aveva ancora dai tre ai sei mesi di ottima salute». Questo modo di comunicargli la data presunta della morte in maniera positiva è uno degli insegnamenti, tra i molti, che Pausch ha deciso di lasciare ai suoi figli, agli studenti e, ormai, a chiunque voglia leggere L’ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore, il suo libro-testamento. Così come aveva imparato alla Disney: quando si chiede a che ora chiude Disneyland, ci si sente rispondere che «il parco è aperto fino alle 20».

Randy Pausch colse così l’occasione che gli diede la sua università, la Carnegie Mellon di Pittsburgh, Pennsylvania, che già da tempo organizzava «ultime lezioni» nelle quali i docenti erano chiamati a condensare i punti più importanti della loro scienza. Decise di non rinunciare, anzi, di trasformare quell’occasione da formale manifestazione accademica in lezione di vita. In fondo, è quanto sarebbe chiesto sempre ad ogni insegnante. «Probabilmente molti si aspettavano un discorso sulla morte. Il mio, invece, doveva riguardare la vita».

«Ho riflettuto a lungo su come definirmi: insegnante, informatico, marito, padre, figlio, fratello, mentore per i miei studenti», pensava cercando lo spunto per la sua ultima lezione, il motivo per cui essere ricordato: «Se avessi raccontato la mia storia trasmettendo la passione con cui ho vissuto, allora la mia lezione avrebbe potuto aiutare anche gli altri a trovare la strada per realizzare i propri sogni», concluse. E scrisse agli organizzatori per comunicare il tema della lezione: Realizzare davvero i sogni dell’infanzia.

Mi colpisce come uno stimato professore abbia saputo parlare al cuore di milioni di persone raccontando se stesso in tutta sincerità, anche di aspetti assai intimi della sua esperienza, facendo uso della sua professionalità: tenendo una lectio magistralis all’università. Vita e professione non si sono scisse; la lezione diviene metafora di una vita, per certi versi approdo, per altri mezzo attraverso il quale comunicare ben altro: sogni, aspirazioni, relazioni, successi e fallimenti. Anche l’angoscia della fine imminente.
È per questo, più che per i contenuti delle sue lezioni, che ricordiamo con affetto un professore.

R. Pausch, L’ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore, con J. Zaslow, Rizzoli, Milano 2008

La lezione su YouTube

Quando il ghiaccio è sottile…

Riccardo, commentando il precedente post, ha fatto notare come «la velocità e la frenesia portino a trascurare le cose più semplici e naturali». Giusto. Allora approfondiamo la questione. D’altronde velocità e frenesia – citando ancora il nostro amico – alimentano non solo trascuratezza, ma generano soprattutto instabilità. Infatti la mamma raccomanda al bambino: «Non correre, altrimenti cadi!». E’ vero. Ma è sempre così?

Cosa accade quando a velocità si somma altra velocità e a instabilità si aggiunge ancora instabilità? Le emozioni dei giovani, per esempio, rappresentano un terreno particolarmente delicato e predisposto a repentini cambiamenti. Del resto, il termine «emozione», ex movere, significa proprio movimento, mutamento. Lo aveva notato anche Aristotele, che definì l’emozione come il principio motore dell’esperienza umana.

Ma questo concetto non esprime solamente un rapporto tra spazio e tempo; piuttosto rappresenta splendidamente ciò su cui l’umano ha riflettuto, meditato; quella causa per la quale l’uomo ha pianto, sorriso, pregato e lottato. È l’effetto congiunto del sentire e del pensare; è un atto interpretativo che coinvolge interamente la persona, quel laccio che unisce la testa con il cuore; un’attribuzione di senso che vincola, cioè, che lega responsabilmente. Perciò riflettere sulle emozioni è estremamente importante. È riflettere su se stessi in relazione agli altri.

Ma per far sì che le emozioni diventino vitamine per relazioni buone e autentiche, bisogna alzare lo spessore delle fondamenta; è necessario aggiungere sostanza al terreno. Altrimenti, quando il ghiaccio è sottile, l’unica cosa che puoi fare è pattinare velocemente.    ORA