Amore, buon senso, saggezza. La scuola secondo Monsieur Lazhar

I banchi disposti su file parallele, un dettato da Balzac in un francese raffinato e forse anacronistico, uno scappellotto al momento giusto, il coraggio politicamente scorretto di affrontare in classe, con ragazzini dodicenni, temi duri come la morte e la sofferenza, senza temere che essi possano non essere in grado di comprendere e dominare le proprie emozioni; e il rapporto franco e leale, formale ma non indifferente, con genitori e colleghi, e la passione per la cultura e la civiltà. Anche di questo parla (ma un altro importante nucleo riguarda l’integrazione degli immigrati e il multiculturalismo) – con uno stile narrativo mai retorico né forzato – il film canadese di Philippe Falardeau Monsieur Lazhar, uscito in Italia nel 2012.
Bachir Lazhar si presenta un giorno in una scuola di Montréal per sostituire la titolare trovata una mattina, da uno dei suoi alunni, impiccata nell’aula scolastica. Afferma di aver insegnato per diciannove anni in una scuola di Algeri e di essere residente in Canada già da qualche tempo. I suoi metodi d’insegnamento vengono giudicati antiquati, eccessivamente rigidi, pedagogicamente inadeguati, addirittura pericolosi da colleghi, alunni e genitori. Ma in breve, aggiustati con qualche innovazione didattica che Lazhar si fa spiegare dalla collega Claire, mostrano la loro piena efficacia: il rendimento dei ragazzi non fa che migliorare e anche il trauma del suicidio dell’insegnante di ruolo viene superato, pur trasgredendo alle rigide prescrizioni imposte dagli psicologi, che preferirebbero che in classe non se ne parlasse.
La verità è che Bachir Lazhar non è un insegnante. In Algeria gestiva un ristorante e si trova in Canada in attesa del riconoscimento del suo status di rifugiato, fuggito dal suo paese natale durante la guerra civile. I due figli e la moglie, lei sì insegnante e autrice di un libro che in patria aveva suscitato lo sdegno dei fondamentalisti religiosi, sono morti nel rogo della loro casa. L’impostura di Lazhar mostra impietosamente che, con vero amore per i ragazzi e per le materie insegnate, con un po’ di buon senso e di saggezza, paradossalmente chiunque è in grado di insegnare. Certo amore, buon senso e saggezza sono doti alla portata di tutti, ma che non tutti dimostrano di avere; e che anzi, sembra dire il regista, sono doti oggi guardate con sospetto, ingabbiate dietro direttive ministeriali, circolari, la dittatura dei tecnici.
Il film conduce una critica sottile a un certo modo di “sterilizzare” i rapporti umani e di ridurre la pratica educativa a mera professione, anzi a fredda tecnica, a procedura. Sono vietati i contatti fisici di qualsiasi tipo: per quanto sia doveroso che si proibiscano le punizioni corporali, il timore di incomprensioni e denunce porta a inibire persino l’abbraccio d’incoraggiamento, il bacio affettuoso, addirittura lo spalmare la crema solare durante la gita, preferendo che i bambini si ustionino. Invece Lazhar, con la sua ignoranza della pedagogia scientifica, riporta al centro dell’esperienza educativa la vita vera, che è fatta anche di dolore: quello dei bambini che hanno perso l’insegnante e quello suo, che ha perso la famiglia e lotta per inserirsi in una nuova cultura, vincendo i pregiudizi che inevitabilmente lo circondano. Alla fine, scoperto l’inganno, Lazhar è allontanato dalla scuola, anche se nel frattempo è stato riconosciuto come rifugiato. Come scrive il card. Angelo Scola, «la guarigione inizia in un rapporto in cui l’adulto per primo abbia fatto i conti con la ferita che pretende di curare».
Il film significativamente si chiude con un’azione severamente vietata: l’abbraccio sincero tra l’insegnante e un’alunna.

«Figlio, Figlio, Figlio…»

Tutti gli incontri sono importanti, ma qualcuno di più. Estremamente significativi, ma ancora da potenziare in termini di opportunità sono quelli tra docenti e genitori. Che avvengano sotto forma di consiglio di classe straordinario aperto alle famiglie, oppure individualmente tra docente e genitore, comunque le due attenzioni, quella che proviene dal calore della mura domestiche e quella che abita tra le aule e i corridoi della Scuola, s’incontrano sempre in un preciso punto d’intersezione: il bene e l’avvenire del ragazzo. Da potenziare, come preannunciato, perché molte questioni che animano le accese conversazioni in casa oppure sterilizzano i lunghi silenzi tra genitori e figli lambiscono tante problematiche che si rinnovano ogni mattina sopra i banchi di scuola. Tra queste, senza dubbio, una sottolineatura particolare la merita il concetto di autorità. Se i tornanti della storia hanno reso questa rappresentazione nauseabonda ed oppressiva, eppure il significato di auctoritas (dal verbo augere) ha una profonda radice generativa; si tratta infatti di approfondire meglio l’azione di «far crescere», «aiutare». Dunque, osservando bene, il bisogno di autorità è imprescindibile per l’uomo. L’uomo non può fare a meno di crescere. Certamente la storia e la cultura modellano il bisogno di autorità dell’uomo, ma non possono soffocarne il respiro; sarebbe come soffocare l’uomo. Ma cos’è l’autorità? È un vincolo tra ineguali; i genitori e il figlio, la scuola e gli alunni, per esempio. Spiegando il concetto di autorità, il filosofo Richard Sennett ha scritto che il rifiuto di questo genere di legame non cancella la relazione, ma semplicemente «usa il reale per dare forma all’ideale»; insomma, per semplificare si può aggiungere che a tanta “ribellione”, comunque, corrisponde tanta “dipendenza”. Dunque, due facce dello stesso problema: da una parte l’unione e ciò che lega le parti, dall’altra, invece, la sensazione di una disparità, di un’ineguaglianza. Che fare, allora? Come irrobustire il legame? Inasprendo la disparità oppure rafforzando il vincolo? Il trucco sta proprio lì. C’è da lavorare sul rapporto, ripartendo proprio dal legame primordiale: la figliolanza. Ecco perché famiglie e Scuola devono camminare insieme. Più s’impara a riconoscere la bellezza di esser figli, più ci si appassiona ad un cammino di crescita.     

 

Quando il ghiaccio è sottile…

Riccardo, commentando il precedente post, ha fatto notare come «la velocità e la frenesia portino a trascurare le cose più semplici e naturali». Giusto. Allora approfondiamo la questione. D’altronde velocità e frenesia – citando ancora il nostro amico – alimentano non solo trascuratezza, ma generano soprattutto instabilità. Infatti la mamma raccomanda al bambino: «Non correre, altrimenti cadi!». E’ vero. Ma è sempre così?

Cosa accade quando a velocità si somma altra velocità e a instabilità si aggiunge ancora instabilità? Le emozioni dei giovani, per esempio, rappresentano un terreno particolarmente delicato e predisposto a repentini cambiamenti. Del resto, il termine «emozione», ex movere, significa proprio movimento, mutamento. Lo aveva notato anche Aristotele, che definì l’emozione come il principio motore dell’esperienza umana.

Ma questo concetto non esprime solamente un rapporto tra spazio e tempo; piuttosto rappresenta splendidamente ciò su cui l’umano ha riflettuto, meditato; quella causa per la quale l’uomo ha pianto, sorriso, pregato e lottato. È l’effetto congiunto del sentire e del pensare; è un atto interpretativo che coinvolge interamente la persona, quel laccio che unisce la testa con il cuore; un’attribuzione di senso che vincola, cioè, che lega responsabilmente. Perciò riflettere sulle emozioni è estremamente importante. È riflettere su se stessi in relazione agli altri.

Ma per far sì che le emozioni diventino vitamine per relazioni buone e autentiche, bisogna alzare lo spessore delle fondamenta; è necessario aggiungere sostanza al terreno. Altrimenti, quando il ghiaccio è sottile, l’unica cosa che puoi fare è pattinare velocemente.    ORA